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Kaddish per Zabiba

Trigger warning: morte materna, violenza, lutto perinatale.

Ecco. Lei è lì. È sul letto della terapia intensiva sotto la finestra, a sinistra. È bella, nonostante sia in coma. È giovane ed eccezionalmente alta per questo popolo. Il puzzo di sangue mi viene incontro come un vecchio amico. “Ciao Zabiba” dico. …da dove sanguinerai oggi, penso. Non sta bene, ha la febbre. L’hanno pulita ma la bocca no, è ancora piena dei coaguli del vomito di sangue di ieri e di due giorni fa e anche di prima. Di quando lottavo con lei abbracciandola per resistere alle sue convulsioni, alla sua voglia matta di morirmi fra le braccia mentre le infilavo a forza un tubo nello stomaco e il suo sangue ci colorava entrambe. Sono un’ostetrica. Racconti come questo fanno parte della mia vita. Quello che ha Zabiba, sui libri si chiama Coagulazione Intravasale Disseminata, quando la studi le tue mani sono pulite e bianche come la pagina.

Cerco di togliere i coaguli. Non ero riuscita giorni fa, nelle cinque ore in cui sono stata al suo capezzale, aspirandole il sangue e pompandole aria nei polmoni. Ricordo la mia collega ed io: il rosso che ci si addensava sulla pelle e sui vestiti e il male alle mani: “dammi il cambio, io aspiro tu vai di Ambu” e così via, schiacciando con due mani il pallone dell’Ambu ogni tre secondi, ininterrottamente per ore. In un ospedale del tempo di pace ci sarebbe stata una macchina a fare quel lavoro, ma qui… i mezzi sono limitati e la macchina era occupata.

E pensare che eravamo perfette estranee fino a poco fa, Zabiba. Ora il fischio di un pallone da ventilazione ci lega come fossimo nate in un destino comune, cui le mie mani e i tuoi polmoni obbediscono, neanche fosse un dialogo prestabilito dal Caso prima che nascessimo.

Io e la collega abbiamo ventilato fino alla preghiera della sera, fino alla voce di un Muezzin che non ho mai visto, in tutti questi mesi. Pur non avendolo mai incontrato lui c’era sempre. Cadenzava le mie e le sue giornate con la preghiera ed entrava anche nell’ospedale dove lavoravo, non fisicamente, ma con le sue benedizioni: scritte su fogli di carta e poi immerse nell’acqua per essere bevute, scorrevano nelle gole delle partorienti proteggendole dalla morte; i suoi buoni auspici freschi di aggiornamento con Allah erano sacchetti di plastica legati alle cosce delle donne ricoverate, come oracoli autoreggenti. Il Muezzin entrava nella mia sala parto con le sue pozioni magiche e nella mia camera da letto mentre dormivo, prima dell’alba, con il suo ululato ferito. Già, è mattina per tutti e due, caro Muezzin. Allah dirà a entrambi le stesse cose oggi? Chissà a te cosa racconta, mentre qui giochiamo a braccio di ferro con la morte in una sala operatoria. A beneficio del tuo dio ammetto che a volte ha fatto finta di lasciarci vincere, come si fa con i bambini.

E come una bambina avevo festeggiato la ripresa di Zabiba: ce la stava facendo, giorno dopo giorno sembrava uscire da quell’inspiegabile buio che l’aveva presa a tradimento. Avrei dovuto ricordarlo. Per cento che danno alla luce, qui, ce n’è una che viene reclamata dal buio. È un debito che l’umano rimette alla notte, una tantum, per continuare ad alimentare la vita in un territorio di fame e guerra. È l’altra faccia della medaglia del lavoro dell’ostetrica.

Dopo quattro giorni, Zabiba aveva ripreso conoscenza, non riusciva a parlare e non capiva cosa le fosse successo, ma intendeva le mie rassicurazioni nonostante il mio incespicare nella sua lingua madre: hub mesha, “stai migliorando” e machbul asti, Zabiba, “sei bellissima Zabiba”, le dicevo pulendole il volto dal sangue e accarezzandole i capelli. A chi sta morendo si parla la lingua che si usa con chi sta nascendo. È il mio segreto: parlo la lingua dei bambini a chi è vicino alla morte, perché all’inizio, e alla fine, è l’unica che capiamo. Parlavo a Zabiba sorridendole, con amore, fino a che lei è riuscita a pronunciare le sue prime quasi-parole. È così che mi ha chiesto come mi chiamassi. Migliorava e migliorò ancora di più il giorno che arrivò sua madre. Una donna magra e che si sarebbe detto anziana come quelle montagne, il ritratto delle dignità. L’anziana donna mi raccontò che Zabiba quando l’aveva vista le aveva posato la guancia contro la sua guancia, come faceva da bambina, disse, e le aveva bisbigliato “mi sei mancata”.
Ci si rende conto di essere caduti nella trappola della speranza solo e sempre troppo tardi. Quando ormai è il momento di biasimarsi per la propria mancata aderenza alla realtà, cioè alla statistica, in questo caso.

Zabiba è andata in coma due giorni dopo. E poi è morta, così come era venuta. In un tempo che non aveva più orologio, ho ascoltato il suo battito cardiaco spegnersi sotto le mie dita. Se mi concentro, posso ancora sentire il suo battito cardiaco spegnersi sotto le mie dita. Quello di suo figlio no, quello ci aveva lasciati molto prima di venire al mondo, una settimana prima. Ora non rimane più niente di loro. È come se queste due vite non fossero mai esistite, sono state cancellate insieme e non ci sarà un dopo.
Imbocco l’uscita del reparto di rianimazione e fuori è il tramonto. Nella luce arancio e rosata le montagne hanno una bellezza da strappare il fiato. Complice la piccola fetta del reale del fuori, sento aguzza la mancanza del dopo di Zabiba e della vita che portava in grembo. Sento la mancanza del dopo di sua madre anziana. Tutto si traduce in un silenzio surreale. Cammino automaticamente, avvolta da una cartolina bellissima e silenziosa che non può mostrarmi il continuo della storia, perché semplicemente non c’è alcun proseguo. Così è. Questa bellezza raggelante è quasi offensiva.

Zabiba, sei arrivata e ti sei dissolta. A poco a poco la mia memoria osserva impotente l’annebbiarsi dei contorni del tuo viso. È un legame che non ha più scopo, un tatuaggio invecchiato, ma che è comunque per sempre. Credo sia così che accade, nei piani meglio riusciti del Caso. Vorrei che la tua vita, la tua malattia e la tua morte scuotessero il mondo, portando al cambiamento di cui c’è bisogno, per te e per tutte le altre. Perché quella gravidanza iniziata con la violenza è stata interrotta con le botte, perché se un padre c’era non era lì a realizzare cosa ti aveva fatto. So che la tua storia è una goccia nel mare, e in questo mare affoghiamo, ma io ti ricordo, Zabiba: i boccoli scuri e gli zigomi alti, bella come un sorriso, nella tua bara l’infamia del mondo. Che la terra sia lieve per te e per il tuo bambino, e che Allah conforti tua mamma per i giorni che vivrà senza di te.

NOTE

Il 31,3% delle 16-70enni italiane (6 milioni 788 mila) ha subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale: il 20,2% (4 milioni 353 mila) ha subito violenza fisica, il 21% (4 milioni 520 mila) ha subito violenza sessuale, il 5,4% (1 milione 157 mila) le forme più gravi della violenza sessuale come lo stupro (652 mila) e il tentativo di stupro (746 mila) – Fonte ISTAT

Il 30% delle violenze ha inizio in gravidanza, il 69% delle donne maltrattate prima della gravidanza continuano a subire maltrattamenti durante la maternità, nel 13% dei casi si assiste ad un intensificarsi ed aggravarsi degli episodi con l’inizio della gravidanza e nel puerperio. Fonte www.aogoi.it Dubini V., Curiel P. La violenza come fattore di rischio in gravidanza. 2004

Per saperne di più si può scaricare il documento su: https://www.who.int/publications/i/item/WHO-SRH-21.9